Sono cresciuto durante gli anni '70 con il desiderio che finissero presto.
Gli '80 arrivarono col botto del Mundial82 e si capì subito che sarebbero stati diversi.
Boom! E Milano, la Milano da bere, si riempì di schiere di manager rampanti (i famosi yuppies) che con aria incredula misero insieme montagne di soldi.
Ero ancora un adolescente, ma già mi dicevo che una fetta di quei soldi e di quelle responsabilità, che evidentemente dovevano pesare così poco, sarebbe stata mia.
I '90 era il periodo dei miei venti anni. Cominciai a lavorare lasciando l'università e capì che “buttandocisi dentro”, quella fetta si riusciva a prendere davvero.
Ho riportato la cronistoria di trent'anni di società italiana per convincermi che assegnare un posto di primo piano alla carriera ed al cosiddetto prestigio sociale era, in quei tempi, una scelta obbligata per me e per moltissimi miei coetanei. Scelta non solo obbligata dalle aspettative individuali, ma anche da quelle delle persone che ci circondavano.
Nel '98 ho compiuto trent'anni.
Ormai ho già scavalcato anche i quaranta, ma quei trenta mi pesarono moltissimo.
Ai trent'anni c'ero arrivato tirando dritto e lasciandomi poco spazio. La fetta che mi ero ritagliato era più che soddisfacente ,ma se mi guardavo indietro e, soprattutto se guardavo avanti, quello che vedevo non mi appagava così tanto. O almeno, non mi appagava come avrebbe dovuto nelle previsioni di qualche anno prima.
Ci sono persone che si rendono conto immediatamente di ciò che non quadra e che schioccando le dita hanno già a disposizione la soluzione.
Io invece, che non sono Vicky il vichingo, da quel momento e negli anni a venire, cominciai ad interrogarmi, sempre meno fiducioso nel radioso sol dell'avvenire capitalisticonsumistico che fino ad allora mi aveva riscaldato.
Non c'era nessuna profonda riflessione politica alla base di questo personale malessere, solo che quello che ero e che inevitabilmente sarei potuto diventare, non mi piaceva per niente. Non c'erano neppure domande precise, solo un senso di insoddisfazione che da allora non mi ha più abbandonato.
Oggi, dopo undici anni di questo 'malessere' (sic), penso che fosse l'ordine delle priorità della mia vita ad essere sbagliato: carriera, denaro e prestigio sociale non sono valori che vale la pena mettere al centro di una esistenza.
Attenzione: rileggi la frase precedente. Sembra una banalità a dirla, ma provare a tradurla in azioni è tutt'altro che semplice.
Comunque sia, se hai la fortuna di avere una posizione di un certo tipo (niente prestigio, ma buona sicurezza economica per esempio), la risposta sta nel downshifting: un termine inglese che più o meno suona come scalare marcia.
Ma cosa significa fare downshifting?
Significa innanzitutto riconoscere che i lussi e le opportunità offerte dallo stile di vita performante e competitivo con cui fino ad oggi hai vissuto, non valgono il prezzo del biglietto che hai pagato e che tuttora stai pagando.
Significa diventare consapevoli che se guadagni 100, lavorando 12 ore al giorno e rovinandoti il fegato, probabilmente non vivrai così a lungo da goderti i 30 che riesci a risparmiare ogni mese.
E probabilmente, significa capire che anche molti dei 70 che spendi abitualmente, sono spesi senza un reale motivo. Un po' come quelle sigarette che si accendono senza pensarci.
A fare un conto approssimativo probabilmente te ne basterebbero 50/60 per campare, ed avresti un sacco di tempo libero per te stesso, per fare quello che ti piace e per stare con le persone che ami.
Ma non è tutto.
Se uno ci è nato e cresciuto, ama Milano. Ma è anche vero che ci sono molti posti più sani e più ameni dove vivere.
Qui in realtà, ti puppi il traffico delle tangenziali, lo smog della metropoli e la schizofrenia del vivere quotidiano meneghino, proprio per seguire un certo tipo di lavoro.
Ma se abbisogni solo del tuo 50, ecco che forse lo puoi tirar fuori anche da altre attività, magari svolte in un contesto più salubre e armonico e con ritmi più umani.
Boiate da santone indiano? Tutt'altro.
Ridurre i propri impegni lavorativi, rinunciando ad una parte dei propri emolumenti per vivere al meglio la propria esistenza è una tendenza che soprattutto nei paesi anglosassoni presenta numeri impressionanti.
Datamonitor, agenzia londinese che si occupa di ricerche di mercato, stima che in tutto il mondo i lavoratori potenzialmente inclini a fare downshifting sarebbero 16 milioni. Ogni anno, circa 260 mila cittadini britannici fanno una scelta di vita che va in quella direzione. Nel 2008, il ministero dei Servizi sociali australiani ha stimato che sono almeno un milione le persone, tutte comprese nella fascia di età tra i 25 e i 45 anni, che hanno deciso di scalare una marcia. La stragrande maggioranza (circa il 79 per cento) lo ha fatto non solo cambiando lavoro e quindi regime di vita, ma anche scegliendo di abbandonare la città a favore di località costiere e di campagna (fonte: Corsera del 9 ottobre 2009).
Insomma, meglio prendersi un pezzo di terra prima non ne rimanga libero nessuno!
sabato 10 ottobre 2009
Downshifting
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